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Quella lei in mezzo ai maschi
Scritto da Paolo Coltro - La Nuova Venezia   
Sabato 17 Gennaio 2009 00:00

Un libro pieno tutto profondamente di uomini, che si apre con un amore tra donne. Ha voglia di stupire, forse di confondere Carla Menaldo, padovana, con questo suo Canna da zucchero che fra una settimana molti potranno leggere. Lo pubblica Marsilio e qualcosa dice che sarà un evento letterario di un certo peso: qualcosa di non scritto, paradossalmente, ci dice di una vigilia importante; elementi sparsi: l’atteggiamento dell’editore, l’entusiasmo di un letterato di lungo corso come Cesare De Michelis. E poi le frasi a mezza bocca di chi quelle pagine ha sfogliato, il fatto che Carla Menaldo sia donna in una città dove i romanzi li scrivono quasi solamente i maschi.

Carla MenaldoSarà per questo che la voglia di scrittura prorompe e resiste per una storia lunga un libro, e sta in piedi e vi avvolge senza che voi sappiate bene perché. Non è un romanzo classificabile, il plot narrativo rimane sullo sfondo mentre in primo piano c’è lei, la protagonista Rosa: è come se avanzasse sul palcoscenico di un teatro, si inchinasse verso il pubblico, ma senza abbassare lo sguardo, e presentasse uno alla volta i suoi comprimari: un inchino ed ecco Sandra, l’amore femmina, un altro inchino con il bel cubano, rapidi passi con la comparsa ex marito, un cameo per l’inglese Dave, poi la presentazione di Giorgio e infine l’ultimo più profondo inchino, quasi a piegare le ginocchia, per Leonardo. La donna e gli uomini ad avvicendarsi su quel palco, ad entrare e uscire dai lati e dal fondo, in un intreccio che è lo spettacolo scritto, il teatro della vita di Rosa. Sarebbe banale dire che è il racconto di una vita e dei suoi amori. Le pulsioni, le pazzie, i salti del cuore e del corpo si fanno beffe della cronologia, meglio cedere al soprassalto dei ricordi così come si impongono con la loro violenza emotiva, mischiando il prima e il dopo, concentrandosi sul durante dell’amore e del piacere, sui tempi lunghi della sofferenza, sui guizzi delle fiamme che si riaccendono dalle braci quando vogliono. La priorità non è quella del tempo, diventa quella del sentire, e per far capire che come per ognuno tutto scorre, Menaldo si affida solo a tre parole: venti, trenta, quaranta. Le grandi campiture degli anni dell’esistenza raccontata, come per dare un’architettura di comprensione, dare un’età e un senso ai tumulti: così ama una ventenne, così vive una trentenne, così si perde nella passione una quarantenne. E in fondo, non ci pare diverso: le espressioni dell’amore, e le sue radici, non cambiano molto. Sarà per via della vivezza del racconto, molto diretto, affidato ad una scrittura pulita e precisa. Lo sanno tutti che la semplicità è difficilissima, la semplicità che rende tutto cristallino, che elimina arzigogoli e superfetazioni. Questa semplicità è l’elemento portante del libro: vi sembra che ve lo stiano leggendo, di sentire una voce che racconta, come se un’amica pensosa conversasse con voi. Ne discende una naturalezza alla quale tutto è consentito: gli eccessi, gli straniamenti, ma anche la normalità e i luoghi comuni. Perché siamo fatti di tutto questo, e il romanzo lo rende con totale fedeltà. Ne avete l’impressione, immediata, di qualcosa di “vero”. E se Carla Menaldo con qualche coquinerie spergiura che di autobiografico c’è proprio poco, non dovete necessariamente crederle. E in fondo non importa, perché le pagine potrebbero raccontare di ognuno di noi. Meglio se donna, perché la connotazione al femminile di queste pagine è fortissima. Talmente forte che le pagine si aprono su quell’amore che definire lesbico sarebbe riduttivo. Lei e lei, divise da una generazione e da un ruolo, professoressa e studentessa, ma unite da una spiritualità-carnalità prorompente. E non c’è scandalo nella trama amorosa, affidata ad uno scambio di mail costretto dalla lontananza, probabile espediente letterario che dà modo d’inventare pagine coccole, di descrizioni americane, di momenti padovani, tra le cose migliori del libro. Sorprende l’immediatezza dell’approccio, l’incipit fuori regola, programmato per stupire. E’ la storia dei vent’anni, controcorrente come molte cose a vent’anni. Ma Rosa è donna da uomini, anche se non soffoca quella parte di maschio che è in lei. Donna da uomini: quelli che poi si succedono nella sua vita, diversi, emozionanti, noiosi, deludenti. Tipi umani che riconoscete - anche questi - come assolutamente veri, sono l’amico, il collega, gli altri, magari voi stessi. Insomma, è un romanzo che non romanza: e cosa c’è di più affascinante di un’invenzione che è uguale alla realtà? La riconoscibilità non finisce qui: è anche nei gesti, nelle cose di tutti i giorni, in quell’ovvio che l’autrice riesce a non rendere tale. E’ in una Padova appena accennata eppure dentro al libro, o su quei colli pochi chilometri più in là. C’è un’aria negata di minimalismo lungo tutto il libro. Negata, perché mai si scade nella banalità, e negata ancora perché minimi non sono i sentimenti, la presenza del sesso, la profondità di pensieri che pure scaturiscono da situazioni “normali”. Forse la lezione sottesa è che proprio la normalità contiene il meraviglioso, il nuovo, l’assoluto. Non è la prima a cercare di farlo capire, Carla Menaldo, ma lo fa attraverso un vissuto che può essere assolutamente comune. Non è necessario salire sull’ottovolante per provare impennate e discese da brividi, basta magari solo guardare la vita con occhi diversi. Insomma, il libro è fatto di buone materie prime: semplicità di scrittura, racconto di una normalità, immediatezza del dire. Condite di un’impronta personale che a chi scrive pare legata al sesso: nel libro il far l’amore diventa “farmi l’amore”, il che lascia intuire la valenza del sé e dell’altro, una centralità spasmodica, un credo convinto. Rosa vive i suoi amori, di persone e di letto, con un coinvolgimento totale, una fede nella carnalità che non è solo fisica. E vien da dire: sarebbe bello fosse sempre così. Se questo è un libro di passioni, lo è nel modo che si è detto: non è quindi un romanzo rosa. Che ci sia il piglio della scrittrice (è il secondo scritto di Menaldo, oltre a un testo per il teatro) lo si nota anche nei particolari. Per esempio: una scena si svolge in un cimitero cubano, e sono citati i nomi su due lapidi. Hanno tutta l’aria di essere quelli veri. Quindi, quando l’autrice è andata a Cuba, ha preso appunti in quel cimitero: l’invenzione vive del reale. Irromperà questo libro sullo scenario padovano e veneto? Fino ad ora, si diceva, quasi solo scrittori maschi, addirittura riuniti (i più giovani) in una corrente-sodalizio con tanto di battesimo: Nuovi Sentimenti. Apriranno la porta a Carla Menaldo? Non è sicuro, perché lei scrive: «... un libro di uno di quegli scrittori che si erano definiti “del Nordest”. Avevo letto qualcosa di lui, il primo romanzetto uscito qualche anno prima. L’avevo trovato orribile, semplicemente». - Paolo Coltro

 

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