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Calle del Arenal - Racconto
Scritto da Carla Menaldo   
Mercoledì 12 Maggio 2010 10:46

CALLE DEL ARENAL

Sai che cosa aveva davvero di diverso?

Che diceva tutto e non aveva paura. Non c’era un dopo, non c’erano reazioni, non c’erano freni, nessuno. Tutto quello che le passava per la testa te lo diceva, tutto quello che provava per te te lo sentivi dire, te lo trovavi scritto sul retro degli appunti, sul foglio strappato di un’agenda, a puntate sui post it.

 

Il suo modo di amarti non prevedeva schermaglie, non calcolava i pericoli, nemmeno quello di solleticarti un po’ troppo l’ego, nemmeno quello di scoprirsi troppo.

E tu, in giacca grigia che dopo avevi una riunione per decidere la prossima campagna pubblicitaria, la chiamano strategia di immagine e tu hai perso il fiato a spiegare che la pubblicità non è l’immagine ma tanto era il classico fiato sprecato, la guardavi scrivere fitto poggiata alla scrivania coi capelli che le nascondevano il viso e spazzolavano il legno seguendo i movimenti a scatti della penna.

Lei era vissuta così, fino a quei trent’anni spigolosi e indecisi che si portava addosso. Aveva vissuto sempre e solo dentro se stessa, ascoltando la voce delle emozioni, assecondando l’onda irregolare dei propri capricci, dei propri umori. Era tutta lì la sua bellezza, e tu lo sapevi guardandola. Sapevi che facevi l’amore con i suoi sogni, la sua assenza dal mondo, prima ancora che con la sua bellezza diafana.

Ti aspettavano in riunione.

Lei non alzava la testa. Non smetteva di scrivere.

 

Quando avevi la sua età tu eri già grande. Solite cose, studio, lavoro, carriera e moglie. Avevi già abiti grigi nell’armadio, e quelli più leggeri di lino per l’estate. Avevi già collezionato donne, amori di quelli importanti e scopate giusto per dire di non aver perso l’occasione. Avevi già letto Sartre e affinato la sottile passione per la letteratura sudamericana, avevi in tasca le chiavi della macchina, della moto e quelle di casa. E avevi una donna che dormiva accanto a te, che portavi in vacanza, al cinema e al ristorante e, nelle sere d’inverno, guardava alla televisione lo stesso film. E pensavi che eri stato fortunato a innamorarti della donna giusta, quella che finalmente ti faceva sentire a casa. Niente figli, per scelta. A lei non interessavano. Tu li evitavi, troppe responsabilità, troppa fatica, troppi legami indissolubili forse.

E adesso, all’improvviso, tutti quei sogni. I sogni di lei, i tuoi con lei.

 

Guardati allo specchio.

Quell’uomo che sei. Gli occhi ambrati del colore ruggine delle viti d’autunno, i capelli che cominciano a macchiarsi sopra le orecchie, le rughe sottili ancora per la verità intorno agli occhi, le guance meno piene.

Quanto pensi che possa durare?

Eppure sei bello.

Le donne ti guardano, ti invitano a pranzo, e poi per il caffè, e poi a cena. Anche le donne più giovani, quelle che avresti potuto avere come morose dieci o quindici anni fa. Ma non ti interessano.

Lei sì, e le riassume tutte. È la più giovane di tutte, mica per l’età che non è proprio una bambina, ma per il suo essere sempre e totalmente fuori da tutto. E perché di lei ti sei innamorato.

Così adesso allo specchio ti guardi con i suoi occhi. Niente rughe, niente capelli bianchi, niente spigoli sulla mascella. Una meraviglia. Come fa un uomo a rinunciare a una meraviglia così?

 

- Smetti di fissarmi. Perché mi fissi?

Tu la guardavi e basta, non potevi fare di più, ma tutto quello che volevi era assorbirla. Assorbirla dentro di te, vivere della sua aria, del suo sangue, dei suoi pensieri. Ma non sapevi come dirglielo, né se dovevi dirglielo, magari avrebbe preso paura.

- Voglio comprarti. Dimmi quanto costi, voglio comprarti.

- Non hai bisogno di comprarmi, sono qui.

- Tu non capisci. Io voglio comprarti. Se ti compro non te ne andrai più. Io non me ne andrò più.

Lei ti sorrise senza parlare come faceva spesso, con le labbra rosa che ti chiedevi come facevano a essere sempre lucide, non di rossetto, di qualcosa di appena umido, come una pellicola inesauribile di desiderio.

Dalla persiana abbassata entravano voci giù dal cortile. Voci che non conoscevi, quella era una casa che non conoscevi. Eppure quel letto incastrato nel sottotetto con l’abbaino che si rigava di pioggia era tutta la tua casa. Era tutto. La sua camera odorava di lei, le pile di libri e cd, le calze buttate di traverso sulla sedia, le magliette che metteva quando andava in palestra erano impregnati del suo odore.

Entravi dentro di lei, attraverso il suo sesso che ti inguainava e ti risucchiava in un momento. E non sentivi più il sangue, come se il tuo cazzo non fosse dritto solo di desiderio, ma avesse aspettato quel momento per versare dentro di lei tutta la vita che ti scorreva addosso. Non potevi più staccarti, e la mordevi, le passavi la lingua sulla schiena seguendo la linea verticale del dorso, poi deviavi e ti trovavi con la faccia incastrata tra l’ascella e il braccio, e la carne più bianca del seno schiacciato sul materasso. Le prendevi i polsi allargandole le braccia sul cuscino e cominciavi a scorrere tutta quella pelle bianca, dal tondo perfetto del culo ai muscoli tesi della schiena su fino alla massa di capelli che le nascondeva la nuca, la tua saliva, le gocce del tuo sudore le vedevi cadere sul suo corpo e venivi così dentro di lei, senza capire niente al di là della sua carne, del suo respiro a scatti, del suo piacere.

E restavi così a lungo senza muoverti con gli occhi chiusi ad ascoltare il leggero tremore del suo corpo, e ti passava davanti tutta la vita che avresti potuto avere, dai Goya del Prado ai tavolini dei caffè all’aperto dei Champs Elysées, le sere d’inverno a litigare per la coperta, i libri che vale la pena di leggere, le luci lontane di New York.

Era lì che ti passava i suoi sogni.

Fare sesso con lei era un fatto osmotico.

Mai, in tutta la tua vita, avevi provato l’osmosi del sesso. Peggio di una riga di coca. La dipendenza è totale, annullante.

 

Non mentire, hai sempre saputo che non potevi stare con lei.

- Che cosa vuoi da me? Le avevi chiesto mentre lei era lì a chiederti di uscire, a chiederti una possibilità.

E continuavi – Al massimo potremo farci qualche sana scopata. Io ho la mia vita, questo lo sai.

A lei sembrava non importare, allora. Tutto quello che voleva era stare con te, non aveva importanza se solo qualche ora o un giorno o qualcosa di più. Aveva un berretto di lana a righe colorate calcato sulla testa, i capelli sotto erano bagnati che quasi gocciavano sui sedili dell’auto. Una doccia veloce, dopo la palestra, ed era uscita ché tu la stavi aspettando.

Non le importava, allora.

Adesso era diverso, diceva.

Adesso che tu le hai detto che l’ami voleva le tue ore, i tuoi progetti, la tua vita. E per intero.

 

Nella sala di vetro qualcuno proponeva cartelloni pubblicitari affissi sugli autobus e fuori dalla stazione.

- Non fa parte della nostra politica di marketing, spiegavi, noi non immettiamo sul mercato un nuovo dentifricio che promette niente carie e denti immacolati. Il nostro prodotto sono le idee.

Ti risuonavano vuote, le tue parole.

Ma gli altri intorno al tavolo, di vetro anche lui, ti ascoltavano con attenzione.

E il responsabile del marketing sulla scia di quello che avevi detto, ha preso a parlare di strategie alternative alla pubblicità d’immagine.

Quello che ha detto non l’hai capito, è scivolato dentro quel corpo da dove tu non eri mai uscito. Accarezzavi i suoi fianchi sopra la seta estiva della gonna mentre tu eri seduto e lei in piedi davanti ti spiegava, incazzata, che non voleva più accettare quella situazione.

La stavi distruggendo, diceva, tu dovevi scegliere cosa fare della tua vita, perché adesso non era più solo la tua vita, ma anche la sua.

Non potevi fare l’amore con lei e poi eclissarti dentro un privacy insindacabile, diceva, non potevi perderti dentro i suoi occhi e poi dimenticare tutto fino alla volta dopo.

Lei voleva dormire con te e la prima cosa che voleva vedere al risveglio era la il tuo profilo steso, diceva.

 

Suonavano jazz, quello nero della Louisiana. Fuori le strade erano un reticolato riflettente alonato dalle luci gialle dei lampioni. Pioveva dal mattino e ancora non aveva smesso. Era l’unico locale che avevi trovato che non suonasse flamenco, evitavi il flamenco e tutta la musica che avevi amato davvero, perché hai amato davvero solo la musica legata alla tua vita. Quella di prima, vita.

Madrid era così adatta a voltare pagina. L’hai scelta due anni fa, ricordi? guardando in internet una casa da comprare lontano. Avevi portato dentro quelle finestre che davano sulla Calle del Arenal venti scatoloni di libri bene imballati, la foto di tua madre che non ti aveva ancora partorito e avrà avuto sì e no diciott’anni, una valigia neanche tanto grande di magliette e pantaloni di tela. Niente abiti eleganti, niente cellulare, niente pigiami, niente vino ché quelli ispanici li trovavi di gran lunga migliori.

Una debolezza, avevi portato Achille. Ma se ne stava tranquillo sopra una mensola insieme alla polvere e ai libri di Simenon. Tutta la collezione di Simenon.

C’era casino nel locale, la gente entrava spinata di continuo.

Quattro ragazzi a un tavolo alzavano la voce per aver ragione a carte.

Poggiato al bancone con due dita di daiquiri ancora da bere e il culo che sfiorava uno sgabello alto, ti guardavi allo specchio, dietro ai liquori, e ti aspettavi la classica scena da film: una donna, magari una bella donna , che ti si avvicina di lato, ti chiede da accendere e beve un sorso dal tuo bicchiere. Tu chiami il barista e le ordini da bere. Ha i capelli rossi, la pelle di burro e piccole efelidi sul naso, ti dice – Se disturbo me ne vado. Ma non ha nessuna intenzione di andarsene. E tu allora ti accendi una sigaretta e pensi che una volta avevi smesso ma la vita cambia, e la guardi coll’accompagnamento di una tromba impareggiabile.

 

Quella era lei, era anche a Madrid.

Non avresti dovuto portare Achille.