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MEGLIO DIRSELO (Rizzoli 2010)
Scritto da Carla Menaldo   
Lunedì 03 Maggio 2010 09:40

Recensione al libro di Daria Colombo

MEGLIO DIRSELO

Cominciamo dal centro.

«Io però credo che sia meglio dirselo» dice piano Lara, commossa, senza riuscire a guardare suo padre negli occhi.

«Cosa?»

«Che ci si vuole bene»

 

È da questo centro che si spiega tutto il romanzo, è questa la chiave interpretativa che spalanca tutte le stanze della vita di Lara. E il lettore si trova improvvisamente tra le pieghe di quella famiglia, una sorta di voce fuori campo, un terzo figlio che osserva, ascolta, vive.

 

È un libro che percorre tre generazioni, tre periodi “forti” che hanno formati l’Italia, e non solo l’Italia.

La borghesia, uscita dalla guerra con la voglia di riscatto, di costruire, che afferma i propri valori saldamente ancorati a un conservatorismo di sopravvivenza.

I sessantottini, i figli rivoluzionari che, in molti casi (come vedremo accade anche in questo libro), proprio attraverso la contestazione costruiranno una nuova borghesia, ispirata a principi di libertà d’espressione e di scelta. Principi che comunque non bastano a colmare il gap generazionale successivo.

I ragazzi più o meno di oggi, forse di qualche anno più indietro, con i loro isolamenti,  la musica sparata, le canne, la play station.

 

Ma il libro è soprattutto la storia di Lara, di questa donna che le generazioni le attraversa tutte e tre, come figlia, come moglie, come madre.

Una donna forte, convinta di poter davvero cambiare il mondo, anche da sola, con la forza degli ideali, del suo credo, della sua lotta.

Una donna che quando si sposa continuerà ad appartenere a quella “nuova borghesia” che lei fuggiva negli anni universitari, e si ritroverà suo malgrado di nuovo lontana, in un mondo che non ascolta più gli ideali che hanno ispirato la sua vita, sui quali ha costruito i rapporti familiari.

I figli sono una specie aliena, come lo sono tutti gli adolescenti. La ricetta della mamma-amica funziona poco o non funziona per nulla. Il marito, Giorgio, è un po’ com’era suo padre, tutto lavoro e niente casa. I figli, in fondo, spettano a lei.

Una storia di tanti, per non dire di tutti, basta cambiare il momento storico.

Ma a un certo punto Lara è costretta a fermarsi.

Qualcosa non va.

A cominciare da sua madre, che risponde cose strane al telefono, perché lei, sua madre, non l’ha quasi più rivista, nonostante abiti a soli 100 km da Milano. Cose senza senso che invece un senso ce l’hanno, e preciso: l’inizio di una malattia che sconvolge la mente, una malattia come l’Alzheimer che stordisce, allontana, uno spartiacque invalicabile tra due mondi destinati a non toccarsi più, mai più.

Suo marito è lontano, non condividono più nulla in fondo, inghiottiti da un lavoro comune, da una quotidianità vorace che non risputa indietro niente.

Giacomo e Tommy, i figli, fanno quello che devono fare: la loro, personale contestazione, quella dei loro anni, quella necessaria, quasi obbligatoria. E non servono a nulla (apparentemente) i principi con i quali li ha cresciuti.

E in mezzo a tante distanze si crea ex novo una vicinanza, quella con il padre, un tempo temuto perché un padre “classico”, che educa e non dialoga, abituato a non esternare i propri sentimenti, perché non è con la debolezza che si crescono bene i figli.

E sua madre che adesso, ammalata e stordita, le fa solo tenerezza. Non è più la donna rigida che le ha tagliato i riccioli biondi perché un giorno era rincasata tardi.

Adesso a Lara quella madre le appariva in tutta la sua, devastante, fragilità.

L’alienazione della madre è lo specchio fisico e osservabile di quell’altra alienazione, più nascosta, più subdola, quella che ci porta via ogni giorno, quella che ha eroso certezze, riferimenti.

 

Lara tira le somme della sua vita perfetta e si accorge che non lo è, la sua vita, perfetta.

 «Abbassa lo sguardo, si siede sul bordo della vasca da bagno,si prende la testa tra le mani e comincia a piangere a dirotto, sentendosi la donna più infelice del mondo. Piange sua madre che non la riconosce, piange suo padre che sta trovando troppo tardi per farle da padre, piange i suoi bambini che non sapranno mai più di talco e di mamma, piange suo marito che forse ha un’altra che gli fa venire il cuore in gola, piange la bellezza che è stata e questa merda di mondo e di vita imbrogliona, piange fino a che le fanno male la testa e la gola e dagli occhi le lacrime non ce la fanno più a uscire.»

 

E c’è quel matrimonio che sembra essere diventato un contenitore vuoto, quel marito assente, e lei che urla, urla per qualsiasi cosa, ha perso dolcezza, femminilità, e allora ripensa al giorno delle nozze. La situazione di molti, forse quasi di tutti, prima o poi nella vita.

«Così era stato il giorno delle sue nozze. Lara non aveva mai scordato la commozione, grande e imprevista, con cui aveva infilato la fede al dito di Giorgio. Se la ricorda bene anche adesso. Solo che allora credeva di conoscere ogni cosa di suo marito, lo ammirava e si fidava ciecamente di lui, ora non sa neanche più chi ha sposato.»

Lara, abituata a muoversi tra il bianco e il nero, improvvisamente si trova, come dice lei stessa, a muoversi tra infinite varietà di grigio. E il grigio è il non-colore, è la tonalità della nebbia che occulta, spaesa e destabilizza.

 

LA LINGUA 

Daria Colombo nella sua prosa adopera l’italiano dell’uso medio (come l’ha definito Sabatini, o neostandard secondo il Berruti), sviluppatosi negli anni Ottanta, dove l’italiano scritto si modella sempre più sull’italiano parlato. Una prosa “quotidiana”, così come è quotidiana la storia narrata. Quotidiana non significa mai però banale. Anzi, l’autrice mischia i registri linguistici, ne fa un uso consapevole e mirato, soprattutto nei dialoghi.

Troviamo infatti un registro medio quando parlano il padre e la madre, mentre i dialoghi tra Lara e i figli o il marito sono un miscuglio di contaminazioni con diversi linguaggi: l’italiano è colto ma non ricercato, ci sono termini espressivamente connotati.

Fino a sfociare nei dialoghi tra i ragazzi, costruiti usando quel linguaggio dei giovani che, se i linguisti non riconoscono ancora come una vera e propria lingua speciale, si può comunque definire un modo di comunicare che si colloca nella confidenza, nella vicinanza comunicativa, ricco di espressioni gergali. Un linguaggio che è nato proprio nella Milano che fa da scenografia alla storia del romanzo e che da lì si è poi espanso in tutto il nord Italia e oltre.

Daria Colombo nella lingua non ricerca, non crea, non infastidisce con inutili e ormai troppo di moda neologismi; la lingua torna all’uso primigenio, far capire e farsi capire.

 

Carla Menaldo