LEGGI UN'ANTEPRIMA DI

"IL RE DEL TANGO"

SCARICA 109.00 Kb

il_re_del_tango_copertinafronte

scarica il brano

"Il re del tango"

di Athos Basissi

 download mp3

LEGGI IL 1° CAPITOLO DI

"SANGUE DI DRAGO"

sanguedidrago_thumb

  SCARICA 49.00 Kb

LEGGI IL 1° CAPITOLO DI

"CANNA DA ZUCCHERO"

CannaDaZucchero_thumb

  SCARICA 113.89 Kb


Statistiche Accessi:
ORLANDO
Scritto da Carla Menaldo   
Giovedì 22 Aprile 2010 09:18

- Orlando, siediti qui. Qui, Orlando, da bravo.

Conosceva molte persone ormai. Alcune di loro passavano più volte al giorno e se erano con qualcuno parlavano di cose, e lui sapeva tanti pezzi di quelle cose, tanti pezzi che univa e alla fine le conosceva quelle persone. Sapeva a che ora andavano in palestra, quanti figli avevano, a volte dove abitavano, almeno la zona. Sapeva se avevano l’amante. E sapeva di quello che passava verso l’una in vestito grigio con la moglie sottobraccio per andare a pranzo, e poi ripassava  la sera con la camicia aderente, un foulard al collo bene annodato, un paio di pantaloni chiari agganciato a un ragazzo di una decina d’anni di meno.

Orlando non aveva mangiato molto quel giorno, sentiva il caldo.

Aveva cercato apposta quell’angolo fresco sotto il portico, magari si riprendeva un po’, povera bestia.

Tirò fuori la fisarmonica dalla custodia di cartone rigido nero, se la appese al collo, poi lo sgabellino, e la poggiò sulla gamba sinistra.

Non aveva un repertorio fisso, dipendeva dal suo umore. A volte cominciava con un valzer, ma gli piacevano molto le canzoni della Spagna. Lo chiamavano lo spagnolo perché succedeva, se era uno di quei giorni in cui suonava solo per sé, che suonasse Besame mucho per un’ora di seguito. Oppure un tango di Piazzolla, anche Piazzolla gli piaceva, si sentiva davvero un musicista quando lo suonava, come se da giovane l’avessero mandato al conservatorio. Quel posto dove lui aveva pensato fin verso i vent’anni che mettessero via le marmellate e i cetrioli in salamoia, e poi invece qualcuno gli aveva detto che aveva imparato lì a suonare la tromba.

Una signora col carrello della spesa che era appena stata al mercato gli lancia cinquanta centesimi che non aveva ancora cominciato a suonare. Sulla fiducia, non l’aveva mai vista prima. 

Veniva dalla campagna, come quella che c’è tutto intorno, fuori le mura.

Ma a lui non era mai piaciuto andare nei campi. C’era andato per un po’, perché lo costringevano.

- Suona suona che quando è ora di mangiare a te ti daremo la fisarmonica! Gli diceva suo padre che sopportava sempre meno quel figlio strano che pareva esiliato dentro la musica e se ne fregava delle mucche e del grano che maturava. Perfino delle donne se ne fregava.

La mattina andava in paese che erano poche case tutte in fila e tutte uguali, di quelle volute da Mussolini sparpagliate un po’ ovunque nella campagna che da Ferrara arriva ai Lidi, comprava le sigarette e andava a trovare l’amico robivecchi per vedere se avevano scartato della musica da qualche parte. Aveva imparato a leggerla da un testo trovato in soffitta, forse di suo nonno che gli raccontavano avesse una passione per il pianoforte, ma per il resto andava molto a orecchio, provava e riprovava finché l’orecchio non era felice.

Beveva un caffè da Elidio che gestiva il bar dove andava la domenica a discorrere con gli amici, poi tornava alla fattoria e si metteva sotto la pergola di vite d’estate.

E suonava.

Sua madre ogni tanto lo chiamava perché andasse a prendere qualcosa nell’orto, o tirasse il collo alla faraona che sarebbe stata la cena. Se la sentiva, ci andava. Ma prima o poi la sentiva, perché sua madre dopo un paio di volte che non aveva risposta usciva di fuori e glielo urlava nelle orecchie.

Poi una domenica sua madre gli chiese di tirare il collo a un paio di polli che c’era gente a pranzo.

- Chi viene?

- Tua zia quella che sta a Reggio Emilia. E c’è anche sua figlia, ha la tua età sai?

Non gliene fregava molto di quanti anni avesse sua cugina. Lui odiava avere estranei tra i piedi, e questo era tutto.

Quando vide sua zia si ricordò che non la vedeva da quando aveva dieci anni forse. Era quella che non poteva soffrire, sempre lì a dirgli come si vive bene in città, a dirgli di andare a stare da loro per un po’ che sarebbe andato a scuola con la Gianna.

Beh eccola lì la Gianna. Un pezzo di gnocca che a dirla tutta perdevi il fiato.

Le strinse la mano, forse un po’ troppo forte, pensò poi, visto che era una signorina, senza il coraggio di guardarla negli occhi. Non sapeva come si trattavano le donne, non gli erano mai interessate.

Ma quella lì sì accidenti.

Aveva una gonna lunga tutta a balze e di tutti i colori come andava allora che era il Settanta più o meno. Una fila di collane che tante così tutte insieme non le aveva mai viste, i capelli scuri ricci lunghi a mezza schiena. Che capelli!

Gianna si capiva subito che veniva dalla città, aveva bei modi e parlava con un accento diverso che lui assomigliava a quello della musica. Era un piacere ascoltarla, non c’era nulla di volgare in lei, solo armonia.

Lo spagnolo si mise sotto la sua pergola, in angolo perché in mezzo sua madre aveva apparecchiato la tavola per otto, e cominciò a suonare. Descubriéndote. La suonava per lei. Era la prima volta che suonava per una donna.

Dopo pranzo e dopo quasi tre fiaschi di vino erano tutti un po’ allegri. Soprattutto Gianna, che il vino non era mica abituata a berlo, ma non era ubriaca. Gli chiese di portarla a fare una passeggiata indicando un filare di betulle che partiva da dietro casa e si allungava dritto che non vedevi la fine in mezzo alla campagna.

Balbettando qualcosa di incomprensibile si avviò al suo fianco tenendo gli occhi bassi e la testa chinata in avanti. Gianna lo prese sotto braccio e cominciò a raccontargli di quanto le piacesse respirare quell’aria finalmente, e poi la sua fisarmonica…era molto bravo, davvero, dove aveva imparato a suonare così?

Della sua musica poteva parlare. Le disse del libro in soffitta e di tutte le prove che faceva fino a che scomparivano le stonature. Le disse di come i suoi si arrabbiavano per la sua passione che veniva scambiata per indolenza, ma lui non avrebbe ceduto, sarebbe diventato un musicista.

- Perché non vieni a Reggio? Potresti andare a scuola lì, di musica, si intende.

- Non pagherebbero mai per mandarmi a scuola di musica.

- Beh potresti fare qualche lavoretto così ti paghi le lezioni. Per l’alloggio puoi stare da noi, c’è posto.

Lo spagnolo sembrava valutare l’offerta, ma poi decise che non era così disposto a lasciare la campagna, la sua pergola. Era lì che la sua musica aveva un senso. Fuori, chissà poteva rischiare di stonarla, e non ne valeva la pena. Era nata in mezzo all’orto di pomodori e cipolle e quando le note uscivano respiravano l’odore del rosmarino e del basilico e si spandevano così, intorno.

Sua cugina era rimasta da loro per un mese quell’estate. Aveva bisogno di cambiare aria dopo un inverno trascorso in città, avevano detto. A lui sembrava stesse benissimo, era solo un po’ pallida ma forse era quel biancolatte cui non era abituato a piacergli. E gli occhi neri grandi e spalancati.

Una sera che faceva caldo l’aveva portata in paese a prendere un gelato da Elidio. Lei mangiò il gelato seduta di fuori sulla sedia di plastica. Elidio mangiò lei. E lo spagnolo guardava sempre più a disagio che Elidio era un amico, ma lo avrebbe preso a pugni volentieri.

Il ritorno lo fecero con le bici a mano, avevano voglia di camminare.

Il fico quello grande che sbucava dal muro vecchio di una casa in rovina spandeva nel caldo sudato della notte il suo odore dolce e lattiginoso.

Gianna  lo spinse di lato tra il fico e il muretto diroccato e si prese il bacio che aveva aspettato per tutta la sera.

Finirono rovesciati in mezzo all’erba che buttava gli umori della notte. Lei con la camicia di garza indiana sollevata fino al collo e lo spagnolo con la bocca e la lingua nel canale tra i seni lasciati al vento che il reggiseno non andava più di moda.

La campagna era deserta  a quell’ora. Solo un cane che abbaiava da qualche parte ma lontano. Stettero così distesi uno di fianco all’altra quasi senza parlare fino all’alba, prendendosi ancora, poi di nuovo, annusando l’odore delle stroppie rimaste a seccare e quello più intenso dell’erba medica. 

Suonava Regreso al amor, un tango lento e lontano.

Le donne amavano quella musica, ne aveva sempre molte intorno quando la suonava, sostavano a qualche metro di distanza, poi gli lasciavano qualche moneta, qualcuna a volte una lacrima.

Era l’ora delle donne quella. Andavano a comprare frutta e verdura e la carne dal macellaio che stava pochi metri più in là.

Ferrara ansimava già a metà mattina dentro un caldo nero e l’acqua intorno al castello era verde muschiosa e marcia.

Una signora ben vestita uscì dalla casa di fianco con una ciotola d’acqua fresca per Orlando e una fetta di anguria per lui. Lo faceva ogni tanto, perché diceva che senza quella sua musica sarebbe morta.

- Caro mio, ho quasi ottantanni - gli diceva – e aspettare di morire nel silenzio torrido di questa città di campagna è ogni giorno più triste. I vecchi dischi che ballavo con mio marito non li ascolto più da quando si è rotto il mobile CGE. Se non ci fosse lei non avrei più ragioni.

Lo spagnolo le sorrideva. Lo faceva solo con lei, da quella volta con Gianna.

Orlando tuffò il tartufo nell’acqua fresca e alla fine ringraziò con uno sguardo felice e una leccatina sulla mano.

Era mezzogiorno ormai e per strada con quel caldo non c’era più nessuno.

Raccolse la fisarmonica, gli spiccioli nel sottovaso e si avviò sotto il portico con Orlando verso un’osteria a un paio di isolati, non di quelle che vanno di moda adesso dove fanno musica jazz la sera e un’ombra la paghi quattro euro se ti va bene. Era un’osteria che sapeva di muffa, non c’erano finestre a cambiare l’aria, ma l’oste assomigliava all’amico Elidio.

Rovescia sul tavolo le monete – Cosa mi dai oggi Oreste?

- Ho le tagliatelle col ragù oggi, le ha fatte la Maria, una meraviglia!

- Bastano? Contando le monete.

- Per te e per Orlando, al solito. Il rosso lo offro io che festeggio.

- Cosa festeggi?

- Mia figlia si sposa domenica. Ha trovato un bravo ragazzo, uno a posto che non beve neppure e ha studiato da dottore.

- Speriamo che non abbia studiato troppo, eh Orlando?