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AMELIA
Scritto da Carla Menaldo   
Giovedì 08 Aprile 2010 10:29

Stesa sul letto guardava fuori dalla finestra chiusa con gli occhi chiusi, ma si vedevano le colline infondo, come un quadro fisso solo che sapeva che erano vive. A volte l'unica vita possibile.

Amelia allungava le mani a prendere l'aria che aveva sempre una strana fisica consistenza ogni volta, dopo. Se n'era andata da mezz'ora, infilato la gonna grigia sotto il ginocchio, la tracolla buttata sopra la camicia trasparente, la giacca no, faceva troppo caldo. Pensava a come si dissolveva dalla stanza come se non avesse corpo, a come invece non poteva fare a meno di sentire ancora quella carne morbida, bianca, a come le sue mani entravano dentro piano, a come si muoveva sopra di lei fino a sprofondare la testa tra i seni, poi fino al collo.

Non riusciva ad alzarsi, a scrollarsi di dosso gli odori misti di profumo di calore di umori.

Ricordava una volta sua madre distesa su un fianco con la camicia da notte bianca aperta, era addormentata e lei bambina in punta di piedi per non svegliarla era entrata nella stanza piena d'afa del primo pomeriggio, con la luce che disegnava i trattini delle persiane sul muro, sull'armadio di ciliegio, sullo specchio troppo alto per la sua statura. I suoi occhi fissi nella fessura profonda tra i seni, e le pareva un pertugio scuro e misterioso e si chiedeva dove andava a finire, cosa c'era in fondo, non pensava alla pelle, pensava che forse era una caverna che portava al cuore. È nato in quel momento l'amore di Amelia per le rotondità abbondanti, lo strano fascino che da sempre provava davanti al seno scoperto, non quello acerbo rotondo delle adolescenti ma quello maturo e florido, quello che usciva dai bordi del reggiseno.

 Una giornata di primavera piena di vento e di viole sulle rive durante una gita su quei colli che erano casa sua, erano suo padre e sua madre, aveva incontrato Barbara.

- Forse mi sono persa - era con un'amica - stavo seguendo le indicazioni per il Salto delle volpi...

Guardava i suoi capelli ricci dorati, la maglia verde appiccicata alla pelle - Dovete svoltare a sinistra subito dopo la curva, seguite il sentiero che taglia il bosco di castagni, poi sale e lì ci sono le frecce.

- Stiamo andando anche noi da quella parte, intervenne Gianni, che condivideva con Amelia da un paio d'anni un bilocale in centro città, la colazione del mattino, le serate al cinema e le notti.

- Se non vi disturba, per noi va bene, grazie, dissero quasi insieme.

Proseguirono parlando di natura, di come fosse troppo secco il sottobosco, della neve che quell'anno era mancata, dei piccoli segni della nuova stagione che cominciavano a emergere dalla terra nera, dell'aria che aveva cambiato spessore, di musica ska, di quanto Barbara amasse passeggiare in mezzo alla natura, di quella volta che era caduta in mezzo alle robinie e si era slogata una caviglia e avevano dovuto portarla a valle praticamente in spalla. L'amica era sua sorella.

Amelia portava uno zainetto con panini coca vino rosso e arrivati sul pianoro mangiarono insieme guardando il dorso di viti della collina di fronte. Le sembrava strana quella donna, non capiva l'età, forse trentacinque, o magari qualcuno in più, gli occhi quasi verdi, fondi e morbidi. Le piaceva, le era piaciuta immediatamente, le dava piacere che ci fosse, la sua voce, il modo di girare la testa lento e misurato come fanno gli animali che studiano, soprattutto la sua calma, la strana inusuale serenità che usciva da lei.

Gianni era poco a suo agio in mezzo a tre donne, se n'era andato con una scusa più in alto quasi dove finiva il sentiero, la sorella stesa supina aveva chiuso gli occhi e sembrava sognare, Barbara rideva ricordando di quando sua madre l'aveva costretta a ingoiare un orribile minestrone di verze che lei odiava e col quale ha provveduto, appena uscita sua madre, a innaffiare un ficus. Amelia respirava piano, le sembrava che tutto intorno avrebbe potuto rompersi anche per un fiato esalato troppo in fretta, e lei voleva che quel tempo non arrivasse a sera.

 Dalla finestra la luce se n'era quasi andata. Per terra i vestiti scomposti, un fazzoletto di carta aperto, una scatola di cioccolatini al rum, una bottiglia di rum, due bicchieri sporchi di rum. Doveva alzarsi. Fuori il cielo giallo della città che confonde la notte coi lampioni e ne snatura il buio che non vedi le stelle pareva densa e soffocante come i suoi pensieri, come la sua vita che continuava a godere irrisolta. "Infondo la mia non-scelta non è codardia - si diceva -, è solo che mi piace così, è come se fossi seduta a pranzo e dovessi scegliere tra il primo e il secondo... come faccio, quando adoro sia gli spaghetti alle vongole che il filetto al pepe? Li voglio entrambi perché una scelta mi costringerebbe comunque a una rinuncia". I suoi rapporti con Barbara e con Gianni erano appunto inconciliabili come una pietanza di pesce e una carne, erano un oltraggio al comune buon gusto, ai canoni sociali di legalità moralità normalità.

"Fanculo", il marciapiedi s'ingabbiava dentro portici scuri che parevano grotte e non aveva nessuna voglia di andare al concerto d'archi "Non mi piacciono gli archi, eccettuato il violino solitario. Io amo la voce roca della chitarra, le sue corde più basse che sono un lamento, che muovono dentro tutti i fasci di nervi, di muscoli, come un'onda di emozione che è indipendente da te". Di sera scendeva ancora un'aria fresca che non te la aspettavi, e Amelia camminava stringendosi il bavero della giacca sulla gola, con le dita così vicine al naso che poteva sentire chiaro l'odore di lei, delle sue profondità molli, poteva sentirlo più forte di quello di soffritti e arrosti che a quell'ora usciva dalle finestre aperte sopra i loggiati dei palazzi storici.

- Cazzo! Da quando qualche idiota aveva rotto il lampione di fronte era diventato impossibile inserire al primo tentativo la chiave nella toppa d'entrata.

- Sei in ritardo.

- Come al solito, sorrise e andò in bagno a lavarsi le mani. Nella stanza c'era una luce soffusa e Gianni leggeva una delle sue riviste preferite che parlavano di scienza. Una volta le era capitato tra le mani un numero con una elica rossa in copertina, l'aveva aperto e non ci aveva capito niente. Le parole sembravano provenire da un'altra dimensione, fatte per non comunicare, forse le ci voleva un vocabolario apposta pensò. Era già pronto, l’abito scuro, discreto e sobrio, l’espressione del viso neutra, sociale, standardizzata.

Perché viveva con quell’uomo? Perché doveva andare a un concerto d’archi? A lei piaceva la chitarra invece, la chitarra la chitarra santoddio.

 Doveva andare a promuovere un nuovo prodotto dell’azienda per cui lavorava a Trieste, ma tutta l’operazione avrebbe potuto risolversi in un paio di giorni se non le fosse venuto in mente il possibile intermezzo ricreativo con Barbara.

- Certo che vengo, non rinuncerei mai a una vacanza con te. Ma quando finiremo di ritagliare solo pochi spazi?

Amelia non sopportava di sentirsi incalzata, stretta, non sopportava l’assenza totale di pudore, di morale, la sfrontatezza, la noncuranza di Barbara. Rinunciare a Gianni voleva dire cancellare tutta quella parte di lei che era sempre stata prima di quell’incontro sui colli, voleva dire  una fatica troppo grande, una presa di posizione impegnativa che in fondo non voleva. Però voleva stare qualche giorno con lei, voleva tuffarsi di nuovo in quella carne, voleva quell’odore, quegli occhi, quelle mani.

Trieste la città zingara, di confine, tra una mitteleuropa fatta di case asburgiche e corsi d’acqua e clima continentale, e il mediterraneo assolato, i frutti di mare e i pini marittimi. Un ponte tra culture che sono state paesi e che adesso quasi si stenta a riconoscere, mischiate nei tratti dei visi, nel polilinguismo, nel non-confine. Eppure per la Slovenia serve ancora la carta di identità e l’euro da loro non circola.

La strada la percorse da sola – Barbara sarebbe arrivata col treno della sera – con le notizie della radio e uno speaker imbecille che lo potevano pagare per stare zitto. E guardava il tratto di costa che accompagna la strada per un bel pezzo prima di Trieste. È stato un viaggio nel passato, quando sono partiti con la Centoventotto verde chiaro, quel verde della Centoventotto insomma, e sua madre voleva che dormisse stesa sul sedile posteriore perché l’avevano tirata su dal letto che era notte, e lì cominciava ad albeggiare appena. Ma quel viaggio era la sua avventura, quel viaggio cominciato col buio che l’avrebbe portata in Jugoslavia per le vacanze d’estate. Non c’era mai stata prima, era stata a Torino a trovare la zia Terè, ma non era mai stata all’estero, e voleva passare la frontiera, voleva vedere se perquisivano la macchina, se le facevano vuotare le tasche come alla tv. Non poteva dormire, accidenti. E gli occhi le si chiudevano e ciondolava la testa addosso al finestrino, con quel mare senza vento che cominciava a respirare e che la seguiva fuori. E suo padre che la teneva d’occhio dallo specchietto retrovisore con un sorriso sornione di comprensione e complicità.

La bellezza di Trieste le era rimasta da quella prima impressione, il lungomare col porto e i palazzi bianchi e l’odore di sale che nel suo paese non c’era e le case che salivano subito dietro, ripide. Da allora il ricordo l’aveva cristallizzata, resa quasi un’immagine ferma nella memoria.

Stava per andarci di nuovo, e stavolta si sarebbe fermata e avrebbe guardato il mare dalla finestra della stanza, oltre piazza Rosmini, e avrebbe aspettato Barbara, ma non era importante se arrivava infondo.