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Le calze di Mameli e la censura offensiva
Scritto da Carla Menaldo - Corriere del Veneto 22 novembre 2009   
Lunedì 23 Novembre 2009 11:35

Non sono mai stata femminista. I ginecei mi spaventano per la loro autoreferenzialità e per l’incapacità di dialogo sereno con il mondo maschile.

Ma l’ingiunzione di ritiro dai canali tv della pubblicità di Calzedonia mi pare un’offesa alle donne italiane, come se qualcuno avesse decretato che l’inno di Mameli non può appartenere all’universo femminile, come se qualcuno avesse detto: Donne, l’Italia non è vostra, non ne avete diritto perché il patriottismo è affare per uomini.

Ma come vi permettere?

Lo chiedo ai soldati, ad Avvevire, a Gigi Buffon e a chi altri ha pensato bene di reclamarne la censura. Forse le donne la guerra non l’hanno fatta? Forse non hanno servito la Patria come i signori uomini? Forse nello sport hanno solo un ruolo marginale e non rappresentano con dignità il nostro Paese?

Lo spot di Calzedonia si distingueva tra gli altri per delicatezza, capacità di essere, tra la stragrande maggioranza della pubblicità, un messaggio che arrivava diretto al cuore, con riferimenti utili non solo alle gambe delle donne ma anche ai giovani, con l’immagine dei ragazzi che in moto indossano il casco mentre la Galimi scandisce dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa. Un neanche troppo celato invito alla sicurezza rivolto ai giovani, visto che credo siano anche il target principale cui Calzedonia di rivolge.

Uno spot che si guardava con piacere, come un corto, pieno di quella dolcezza femminile ripulita dalle consuete immagini-icone che propongono la donna come stereotipo del sesso e della provocazione.

Ma forse è questo che siamo per chi ha deciso che la censura s’ha da fare, piacevoli intermezzi provocanti per distrarre un momento soldati, sportivi e … vescovi!

E proprio i calciatori parlano, dopo che solo poco tempo fa era chiaro che l’inno neanche lo sapevano a memoria, aprendo la bocca senza che uscisse parola!

Non è quello spot un’offesa all’Italia, bensì la sua censura, chiesta con occhio miope e maschilista, nascondendosi dietro un presunto “uso improprio” di un Inno che è simbolo e identità, che nello spot non trovava una diminutio del suo messaggio ma una nuova e contemporanea capacità di appartenenza.