LEGGI UN'ANTEPRIMA DI

"IL RE DEL TANGO"

SCARICA 109.00 Kb

il_re_del_tango_copertinafronte

scarica il brano

"Il re del tango"

di Athos Basissi

 download mp3

LEGGI IL 1° CAPITOLO DI

"SANGUE DI DRAGO"

sanguedidrago_thumb

  SCARICA 49.00 Kb

LEGGI IL 1° CAPITOLO DI

"CANNA DA ZUCCHERO"

CannaDaZucchero_thumb

  SCARICA 113.89 Kb


Statistiche Accessi:
Mytikas - racconto
Scritto da Carla Menaldo   
Mercoledì 28 Ottobre 2009 09:10

Mytika

 

Era vecchio ormai. Improvvisamente gli sembrava tanto vecchio che quasi non credeva fosse davvero ancora vivo. I segni del sole e dei molti anni per mare avevano scavato la pelle del viso come fanno le onde di maestrale con la roccia alta delle isole. 

- Cosa vuoi, adesso si pescano solo sarde e sgombretti. Un sarago è una fortuna e se trovi aragoste nelle nasse puoi esultare per una settimana, commentava tra sé a mezza voce, coperto dal rumore della risacca contro gli scogli bianchi del molo.

Vassili aveva deciso di tornare, non sapeva se ci sarebbe riuscito a vivere di nuovo lì dopo tutti gli anni passati a Padova. In quella terra che aveva portato nel cuore e che salutava ogni sera prima di addormentarsi, quella terra di polvere e basta, di ulivi che un tempo erano solo selvatici. Eppure era la sua terra, ed era soprattutto il suo mare.

- Lo so, rivolto al vecchio, ma adesso c’è un po’ di gente che viene in vacanza qui, non molta per la verità, ma quanto basta per un piccolo paesino come Mytika. Molti hanno aperto negozi, e non si deve più vivere solo di mare -

- Ti dirò una cosa. Un giorno Dimitri e io abbiamo deciso di uscire dal mare chiuso, abbiamo girato la punta nord dell’Isola Grande decisi a stare fuori un paio di notti. Era il tramonto quando ci trovammo soli col mare aperto da un lato e le scogliere dall’altro. Quella costa era poco abitata lo sapevamo, ma eravamo giovani, non poteva succederci niente. Era fondo lì, lo si capiva dal colore.

Un tipo che viene qui da anni armai per l’estate mi ha detto che in quel punto ci sono duecento metri d’acqua a pochissima distanza dalla costa.

Era buio e le reti erano in acqua. Avevamo pesce in abbondanza anche a Mytika prima del terremoto, ma ci stava troppo stretti il braccio di mare solito. Era la nostra avventura, erano acque sconosciute per noi –

Tossiva ogni tanto, e sputava nell’acqua ferma del porto il catarro di tante sigarette. Parlava e guardava il mare, come se Vassili non ci fosse, come se cercasse di nuovo quella vita.

- Era come se ci fossimo solo noi. Dei tonfi sordi di pesci a fior d’acqua ci svegliavano da un appisolamento momentaneo e fragile. La mattina dopo cominciammo a tirare le reti e c’era pesce tanto che la barca s’abbassava nell’acqua mano a mano che lo tiravamo su. Avevamo bisogno di venderlo, subito, perché la strada del ritorno era lunga e il mare aveva ingrossato già dal mattino con una onda lunga e inquieta che noi abituati ai canali stretti tra le isole non conoscevamo.

Dimitri voleva tornare e fermarsi a Fiskardo, ma io insistetti per continuare. In cuor mio volevo girare l’Isola Grande, l’avevo sempre voluto, fin da quando ero bambino e mio padre mi raccontava dell’acqua fonda che a mezzogiorno rovescia il sole e pare che la luce venga da sotto.

La prua a sud, proseguimmo. Poi un grande golfo fatto di scogli verso il cielo e spiagge di ciottoli bianchi e in fondo ci sembravano delle case quelle macchie chiare tra la vegetazione e il riflesso del sole. Era un paesino e assicurata la barca con una gassa e lasciato Dimitri a far la guardia al pesce, scesi diretto alla taverna che portava un cartello sbilenco con scritto un nome stinto e illeggibile –

 

Vassili ascoltava e nella sua mente si accavallavano ricordi d’infanzia quando sua madre lo cercava all’ora di cena e lui si nascondeva dentro gli scafi vuoti delle barche colorate di azzurro e rosso ancorate a riva perché voleva restare a bagno e non aveva voglia di pomodori e feta. Pensava alla sua decisione di andare in Italia, a sua madre che aveva tanto insistito e poi alla partenza lo strinse come se non avesse dovuto rivederlo più. Non l’aveva rivista più.

Era da giorni che non si vedeva il sole e la nebbia non mollava la presa e le sue ossa erano rigide e doloranti che non c’era abituato a quell’umido fosco. Era tornato nella stanzetta che divideva con un ragazzo di Terni dopo la lezione di Materiali dentari con lo stomaco dolorante per la fame, masticando un pezzo di pizza comprata nel panificio di sotto.

- Ha chiamato tuo padre – esordì Mauro con lieve imbarazzo e gli occhi bassi – dice se lo chiami alle due al solito numero –

Aveva chiesto a Mauro qualcosa di più, ma il ragazzo disse – chiama –

Quando era arrivato a Mityka non c’era la nebbia e a raccontarla non la si capisce, e sua madre era scritta sul bianco talco di una pietra e aveva gli ultimi fiori di buganvillea della stagione al posto delle labbra.

Non era più tornato da allora.

 

- C’era una ragazza sui vent’anni con i capelli neri e gli occhi che non distinguevi la pupilla, timida che corse su per le scale a chiamare sua madre.

-Ho del pesce da vendere, le dissi e lei chiese quanto, venne fuori a vedere sulla barca e lo comprò tutto. Un po’ lo tengo per i clienti, disse, un po’ lo vendo a qualcuno.

Ci guardava sorpresa. Da dove venite?

Mytika.

Mytika? E che posto è Mytika?

È sulla costa a est.

Volete fermarvi stanotte? Sembrate stanchi. Ho una stanza libera, non pagate nulla, ci mettiamo d’accordo sul prezzo del pesce.

Dimitri non aspettava altro, ci sedemmo sotto il portico di frasche con un bicchiere gelato di vino resinato, pane e kokoretsi.

Ce li aveva portati la figlia Anna con un sorriso appena accennato che illuminava quegli occhi meravigliosi –

Anna se l’era portata a Mytika, l’aveva sposata con rito ortodosso in un giorno di caldo torrido che il canto delle cicale entrava per la porta principale della chiesa e copriva le parole del prete, e sulla strada davanti passavano pecore in ordine sparso, che il pastore s’era messo a sbirciare la sposa da fuori la chiesa.

Anna lo aspettava il mattino quando rientrava da pesca, lo aiutava a togliere i pesci dalle reti, li separava per razza e gettava quelli non buoni, poi sistemava le cassette ai lati della strada principale che tagliava il paese e li vendeva.

Quando sono arrivati i turisti pionieri la guardavano incuriositi che da loro il pesce si comprava in pescheria o nelle bancarelle attrezzate di ghiaccio e cartellini dei prezzi, mai per terra sul marciapiede o dentro una carriola porta a porta. E compravano indicando col dito. Anna aveva imparato a scrivere il nome dei pesci su un foglietto, ma nessuno capiva quell’alfabeto strano dove la P maiuscola era una R e aveva sette modi di scrivere la i.

 

Vassili aveva finito l’università, era un dentista adesso e per un paio d’anni aveva lavorato in uno studio nella prima periferia di Padova, con le pareti tinte di verde chiaro, gli strumenti all’avanguardia che gli permettevano di curare una carie con un raggio di luce. Aveva lasciato la stanza che occupava da studente e preso in affitto un appartamentino arredato.

- Non c’è l’aria condizionata, mi spiace – disse la padrona quando glielo mostrò.

Per questo lo prese. Lui odiava l’aria condizionata asettica e priva di odori, isolante e morta.

La sera c’erano gli amici e qualche birra e d’estate andava spesso verso il litorale, a meno di un’ora di macchina, perché aveva bisogno di respirare il sale del mare, l’umido dello scirocco che ungeva la pelle di umori acquei.

Poi non ce l’ha più fatta.

A Mytika non c’era un dentista, s’era detto, e quello che è nel paese più vicino se lo ricordava che ce lo aveva portato sua madre in seconda elementare e gli aveva tolto un dente che il male era durato una settimana. E poi d’estate ci sono anche i turisti che fracassano le onde coi gommoni e gli yacht, magari ogni tanto qualche carie ce l’hanno da farsi curare.

Era rischioso, ma non riusciva più a vivere lì. Era cresciuto attaccato a quella terra arsa, verde solo di ulivi, in mezzo alla gente che di notte pescava e nel tardo pomeriggio sedeva fuori dalle taverne lungo il porto a fumare e chiacchierare, a guardare il mare e ascoltare il vento per capire come sarebbe stato domani. Aveva bisogno dei gabbiani per vivere, del loro grido acuto dietro i pescherecci, delle capre in mezzo alla strada asfaltata a bloccare le poche auto, delle sere di vento passate a discorrere sul molo con una lenza in acqua.

Era tornato lì, e gli sembrava di avere tradito sua madre che un giorno, quando aveva diciassette anni, seduti sotto l’eucalipto bianco che aveva appena perso la pelle, gli aveva detto devi laurearti e avere una vita diversa, devi avere dei figli coi vestiti puliti che vanno a scuola e non puzzano di pesce, qui non c’è futuro.

Ma lui voleva che i suoi figli conoscessero il luogo da dove soffia il vento, le maree e la luce abbagliante e totale del mezzogiorno, le case bianche di calce, il sapore dei ricci di mare tagliati a metà e succhiati, come faceva lui da ragazzino.

E voleva Anna, una Anna come sua madre con gli occhi neri che lo accompagnasse al molo al tramonto in cerca della sagoma scura dei delfini.

 

- Dimitri te lo ricordi vero? Aveva solo due anni meno di me. Mi fregava sempre le sigarette, voleva l’anice da solo, guai a mettergli ghiaccio o acqua. Poi quella sera ha voluto uscire che c’era troppo mare e io gli avevo detto non andare c’è vento forte da nord e fa freddo. Sai non l’abbiamo più trovato, siamo stati fuori per giorni in cinque ma non l’abbiamo più trovato. La sua barca è quella lì che vedi sulla spiaggia lunga di ghiaia, che i turisti credono un monumento alla città perché l’hanno dipinta e messo le bandierine colorate, ma era quella di Dimitri –

 

Se lo ricordava Dimitri, lungo lungo con la pelle che sembrava di scaglie, seccata dal sole, lo prendeva in braccio e se lo metteva sulle spalle da piccolo e gli insegnava i nodi da marinaio e gli diceva quando sarai più grande ti porterò fuori con me e andremo in cerca degli squali che non è vero che non ci sono e di notte escono. E andavano insieme da Sofia, una delle tante vecchie tutte nere con la porta della cucina che si apriva sulla strada e vendeva frutta e verdura poggiata sul tavolo e dietro sulla credenza icone di santi e una foto arricciata di sua figlia.

Un melone, che ce lo mangiamo adesso, chiedeva Dimitri.

In Italia non aveva più mangiato quei meloni bianchi che scavava col cucchiaio, zuccherosi che dovevi lasciarne da parte un pezzettino per le api sennò ti infastidivano di continuo.

 

Era andato in paese prima, a prendere nescafé e giornale, e davanti alla ferramenta con l’insegna Vitex che un tempo forse s’accendeva, c’era una donna giovane con due cassette di pesce sottile che poteva essere sardine e una bilancia, seduta a terra sul marciapiedi intenta a vendere mentre il marito riportava la barca in porto, la sciacquava e andava a dormire qualche ora.

Era tutto fermo, era tutto sospeso in mezzo a quelle case assetate, alle piante di fico che spuntavano da muri abbandonati, era come se Vassili avesse finalmente ritrovato la vita dopo il tentativo sofferto di diventare cittadino. La donna e le sarde gli avevano ridato il respiro dopo lunghi anni di apnea.

 

Al vecchio si inumidirono gli occhi.

- Mi sei mancato, figlio. Non ho potuto fare niente, ho lasciato che tua madre morisse, e che tu te ne andassi lontano. E ora che sei qui sono felice. E sono stanco –

Vassili gli mise un braccio attorno alle spalle e se lo strinse contro, andiamo, stasera mangeremo kokoretsi e berremo vino resinato.